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di Giorgio Sirilli

Innovazione tecnologica

Sommario: 1. Introduzione e definizioni. 2. Le conoscenze e l'innovazione tecnologica. 3. Innovazione e crescita economica . 4. Struttura di mercato e innovazione. 5. L'investimento immateriale. 6. L'innovazione tecnologica nelle imprese. 7. La collaborazione nell'innovazione e i cicli tecnologici. 8. Il trasferimento delle tecnologie. 9. Innovazione tecnologica e occupazione. 10. La tutela della proprietà intellettuale. 11. L' Europa e l' Italia verso il terzo millennio. □ Bibliografia.

1. Introduzione e definizioni

La scienza e la tecnologia rappresentano due dei fattori chiave della 'società basata sulla conoscenza' che si è andata affermando a partire dagli anni ottanta del XX secolo. Le nuove conoscenze trovano applicazione nell'innovazione tecnologica, la quale produce grandi vantaggi per l'umanità, ma - come sperimentato nel corso della storia - può dar luogo a effetti indesiderati, nocivi o addirittura distruttivi.

L'innovazione tecnologica può essere definita come l'attività deliberata delle imprese e delle istituzioni tesa a introdurre nuovi prodotti e servizi, nonché nuovi metodi per produrli, distribuirli e usarli. Condizione necessaria per l'innovazione è che essa venga accettata dagli utilizzatori, siano essi i clienti che acquistano il nuovo bene o servizio sul mercato, o i fruitori di un servizio pubblico.

L'innovazione può avere diversi gradi di novità. Le innovazioni 'incrementali' consistono nel perfezionamento di un prodotto, un processo o un servizio rispetto al modello esistente e mirano al miglioramento della qualità, delle prestazioni, dell'adattabilità, nonché alla riduzione dei costi di produzione o di vendita. Le innovazioni 'radicali' rappresentano un salto di qualità rispetto ai prodotti e ai processi disponibili e, di norma, sono legate ai risultati di ricerche nei laboratori industriali o in quelli degli enti pubblici o delle università. Esempi sono il nylon rispetto alle fibre tessili, il transistor rispetto alle valvole termoioniche, la rilevanza delle impronte digitali genetiche mediante l'esame del DNA rispetto alla dattiloscopia. Le innovazioni incrementali sono molto numerose, vengono introdotte gradualmente nel tempo e consentono di adattare l'innovazione radicale alle mutevoli e impreviste necessità degli utenti, che spesso si trovano in contesti geografici, settoriali e organizzativi diversi da quello per cui l'innovazione è stata concepita.

L'innovazione tecnologica non è un fatto meramente scientifico-tecnico, ma un processo sociale di natura dinamica. Essa si accompagna spesso ad altre forme di innovatività, che possono riguardare: le caratteristiche estetiche dei prodotti (legate alla moda, al design, al marchio, alla confezione, ecc.), le tecniche di gestione aziendale (just in time, procedure di qualità totale, ecc.), le strategie e gli strumenti di marketing (televendite, commercio elettronico, ecc.), le modalità di finanziamento dei nuovi prodotti (venture capital, ecc.), le strategie d'impresa (accordi produttivi e commerciali tra imprese).

Nel processo innovativo di tipo radicale vengono di norma identificate varie fasi, implicitamente intese in senso sequenziale. Esse sono: la scoperta scientifica, ossia l'acquisizione di conoscenze originali sui meccanismi che presiedono ai fenomeni naturali e sociali; l'invenzione, ossia una nuova idea, un nuovo sviluppo scientifico o una novità tecnologica non ancora realizzata tecnicamente o materialmente; l'innovazione, ossia l'attuazione dell'invenzione in un nuovo prodotto o processo produttivo e il suo sfruttamento commerciale; la diffusione, ossia il processo di adozione su larga scala di un'innovazione (per esempio un personal computer - PC - o una macchina utensile). Se da un punto di vista analitico queste fasi possono essere facilmente distinte, come pure possono esserne identificati gli attori principali (rispettivamente: lo scienziato, il ricercatore-progettista, l'imprenditore-innovatore, l'utente della tecnologia), dal punto di vista pratico il più delle volte esse sono indistinguibili: un esempio è quello delle nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione sviluppate negli anni novanta nella Silicon Valley degli Stati Uniti, in cui gli stessi attori erano impegnati con funzioni diverse nelle università e nelle aziende create ad hoc per sfruttare le nuove idee.

Secondo alcuni studiosi, l'innovazione tecnologica è alla base dei cicli lunghi dell'economia: il primo, quello della prima rivoluzione industriale (all'incirca dal 1770 al 1830), è stato legato alle innovazioni nel settore tessile in Inghilterra ; il secondo (1840-1890) all'introduzione della ferrovia; il terzo (1890-1930) all'elettrificazione, all'industria chimica e al motore a combustione interna; il quarto (1930-1980) alla produzione fordista di massa basata sulla catena di montaggio; il quinto (iniziato all'incirca negli anni ottanta) alle tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Ciascun ciclo si è accompagnato a una larga disponibilità, a prezzi bassi, di una materia prima chiave per la tecnologia dominante (il cotone nel primo ciclo, il carbone nel secondo, l'acciaio nel terzo, il petrolio nel quarto, il circuito elettronico su chip nel quinto).

Il concetto di ciclo lungo dell'economia si collega a quello di paradigma tecnologico, che può essere definito come un insieme di principî che prescrivono le direzioni dello sviluppo tecnologico secondo logiche predefinite e che forniscono un'euristica in grado di guidare l'immaginazione dei tecnici.

Le tecnologie dell'informazione e della comunicazione, che sono alla base del quinto ciclo lungo dell'economia, hanno avuto uno sviluppo quarantennale, che può essere suddiviso in tre ondate. La prima è quella dell'hardware, cioè delle apparecchiature che segnano la diffusione dell'informatica; negli anni sessanta e settanta in California sono proliferate aziende per la produzione di memorie, i chips per computer; dai microprocessori, le aziende sono poi passate a produrre i computer. La seconda ondata, iniziata negli anni ottanta, ha avuto come fulcro lo sviluppo del software, e cioè i programmi applicativi per il lavoro e il divertimento (programmi di scrittura, di elaborazione dei dati, videogiochi, ecc.), nonché più complessi programmi operativi di sistema usati per collegare reti di computer. La terza ondata può essere collocata nel periodo 1994-1995 e coincide con il lancio del primo browser commerciale (Netscape), cioè quel sistema di navigazione su Internet che consente di accedere ai contenuti informativi dei siti collegati nella rete. Internet può essere considerata figlia del progetto Arpanet che, nel 1969, aveva l'obiettivo di sviluppare una rete nazionale di computer capaci di dialogare tra loro e che negli anni settanta e ottanta collegava i computer delle università americane e di alcuni centri di ricerca. La svolta avvenne nei primi anni novanta, con la messa a punto del World Wide Web, il sistema che consente di 'cliccare' su parole o immagini che compaiono sullo schermo del computer per seguire i percorsi di informazioni collegate.

Al termine degli anni novanta si è iniziato a parlare di 'nuova economia', per sottolineare le caratteristiche inedite dell'economia statunitense che aveva fatto registrare per tutto il decennio una continua crescita in presenza di bassi livelli di inflazione e di disoccupazione. Tale crescita è stata spiegata da vari studiosi con l'affermarsi dell'innovazione tecnologica nel settore dell'informazione e della comunicazione, che ha permesso di creare nuovi prodotti e nuovi mercati, di raggiungere elevati livelli di produttività, con conseguenti contenimenti dei costi, e di generare nuovi posti di lavoro. Un secondo fattore caratteristico della 'nuova economia' è stato la continua crescita del valore dei titoli in borsa, accompagnata dall'innovazione nel campo della finanza che ha favorito la nascita e lo sviluppo di iniziative ad alto rischio, e che ha dato luogo a una 'bolla speculativa' di borsa che si è 'sgonfiata' nel 2001. Nel complesso si può affermare che il paradigma dell'informazione e della comunicazione rappresenta un fenomeno strutturale e non passeggero, e che è destinato a diffondersi ulteriormente nel terzo millennio determinando ulteriori aggiustamenti organizzativi e istituzionali. Fenomeni come quello delle speculazioni di borsa assumono carattere transitorio e di aggiustamento dell'economia, e si sono verificati anche in precedenti cicli lunghi dell'economia, ad esempio quello della diffusione delle ferrovie. In parallelo alle tecnologie dell'informazione e della comunicazione sono in fase di rapido sviluppo altri due grandi paradigmi: quello delle biotecnologie - le quali però non hanno ancora permeato di sé i sistemi sociali ed economici, anche se tutti i segnali indicano che esse potrebbero rappresentare il motore dell'innovazione tecnologica del terzo millennio - e il paradigma delle nanotecnologie e dei nanosistemi, che presenta tutte le caratteristiche delle 'tecnologie abilitanti', e cioè la possibilità di avere sviluppi applicativi in una molteplicità di settori.

2. Le conoscenze e l'innovazione tecnologica

Nella parte finale del XX secolo la crescente importanza della scienza, della tecnologia e dell'innovazione ha condotto a utilizzare varie espressioni per caratterizzare le società e le economie più sviluppate, ad esempio 'società dell'informazione', 'economia basata sulla conoscenza', 'economie dell'apprendimento'. Tali espressioni mettono al centro dei processi sociali ed economici la capacità di produrre, gestire, distribuire e utilizzare le conoscenze, non soltanto e non necessariamente di tipo scientifico e tecnologico, ma a esse comunque connesse. In tale contesto diviene centrale il processo dell'apprendimento. Per comprendere il ruolo di tale processo è stata proposta una distinzione tra i diversi tipi di conoscenza: sapere cosa (know-what), cioè avere la conoscenza dei fatti rilevanti, conoscenza che può essere suddivisa in unità dette 'bit-informazione'; sapere il perché delle cose (know-why), cioè avere la conoscenza scientifica di principî e leggi di movimento della natura, della mente umana e della società (tale conoscenza è estremamente importante per lo sviluppo tecnologico in alcuni settori, come per esempio nell'industria chimica, in quella elettronica e nelle biotecnologie); saper fare (know-how), cioè avere le competenze pratiche per fare qualcosa; infine, sapere chi fa cosa (know-who), cioè essere informati su chi è in grado di risolvere specifici problemi, il che comporta la formazione di relazioni sociali con gli esperti per poter accedere alle loro conoscenze e utilizzarle in maniera efficiente.

I primi due tipi di conoscenza si possono ottenere con la lettura di libri, assistendo a lezioni o con l'accesso a banche dati, e sono pertanto indicate come 'conoscenze codificate': infatti sono quelle disponibili nei manuali, nelle formule e sono espresse in un linguaggio comune e universalmente condiviso; esse rappresentano l'informazione. Le altre due categorie poggiano soprattutto sull'esperienza pratica e sull'apprendistato, e quindi sulla trasmissione delle conoscenze dal maestro all'apprendista; queste sono in genere definite 'conoscenze tacite', in quanto di norma non sono documentate o rese esplicite da chi le usa e le controlla (per mancanza di incentivi a codificarle o perché tacite per loro natura). L'aspetto fondamentale dell'apprendimento individuale e organizzativo è forse la trasformazione della conoscenza da tacita in codificata, in un continuo processo di accumulazione del sapere.

Una delle attività all'origine dell'acquisizione di nuove conoscenze è la 'ricerca e sviluppo' (R&S), definita come quel complesso di lavori creativi intrapresi in modo sistematico sia per accrescere l'insieme delle conoscenze (ivi compresa la conoscenza dell'uomo, della cultura e della società), sia per utilizzare tali conoscenze per nuove applicazioni.

3. Innovazione e crescita economica

I canali attraverso i quali l'innovazione è legata alla crescita economica sono molteplici e non lineari. Tuttavia vi è unanime consenso sulla centralità del progresso tecnologico nei processi di trasformazione economica. Un economista che ha influenzato significativamente il dibattito sul rapporto tra economia e tecnologia, Joseph Schumpeter, ha operato una distinzione tra crescita e sviluppo: con il primo termine si intende un processo graduale di espansione produttiva basato su beni e tecnologie preesistenti, mentre lo sviluppo economico prevede un processo di 'distruzione creatrice' che si manifesta con l'introduzione sul mercato di nuovi prodotti e processi produttivi. Il problema della crescita economica viene analizzato in maniera differenziata a seconda che si analizzino i paesi più sviluppati o quelli in via di sviluppo. Nelle ultime decadi del XX secolo, il divario in termini di crescita e di sviluppo tra i primi e i secondi è andato complessivamente ampliandosi, con il fallimento dei paesi latino-americani e con il peggioramento della situazione di quelli africani. Diverso è stato il caso delle 'tigri asiatiche' (Corea, Taiwan , Malaysia , Singapore , Hong Kong ), che hanno saputo adottare e sviluppare le nuove tecnologie e hanno conosciuto tassi di crescita estremamente elevati. Ciò dimostra come lo sviluppo economico, accompagnato dall'innovazione tecnologica, sia precondizione essenziale della crescita delle economie.

Un filone di analisi che si è andato affermando negli ultimi due decenni del XX secolo riguarda i sistemi nazionali di innovazione, intendendo con ciò la rete di istituzioni nei settori pubblico e privato le cui attività e interazioni generano, importano, modificano e diffondono nuove tecnologie e conoscenze. Il concetto di sistema nazionale di innovazione si collega alle teorie evolutive della crescita, che annettono particolare importanza ad alcuni fattori - come 'l'apprendimento attraverso il fare' ( learning by doing ), l'interazione tra vari soggetti, le innovazioni incrementali - che caratterizzano l'innovazione come un fenomeno creativo diffuso nell'intero tessuto produttivo in sinergia con quello scientifico, tecnologico, finanziario e istituzionale. Dal confronto tra i sistemi dei paesi più sviluppati e quelli dei paesi in via di sviluppo emergono profonde differenze qualitative e quantitative tra i vari elementi costitutivi: la R&S, il tipo di coinvolgimento delle imprese nelle attività innovative, l'efficacia e l'estensione del sistema educativo, le modalità di interazione tra agenti economici e tra questi e le istituzioni pubbliche, le imprese multinazionali e il loro ruolo nel sistema economico. Nel caso dei paesi in via di sviluppo la debolezza degli attori e la frammentarietà delle interazioni tra di essi mettono addirittura in discussione la stessa applicabilità del concetto di sistema nazionale di innovazione. La tab. I mette in risalto le differenze strutturali tra i sistemi dei paesi avanzati e quelli dei paesi in via di sviluppo.

Il legame tra innovazione e crescita economica nei paesi più avanzati è stato oggetto di molte analisi. Uno studio condotto dall' OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), la quale raccoglie i paesi più avanzati dell'Occidente, relativo agli ultimi due decenni del XX secolo, ha permesso di quantificare l'impatto dell'innovazione tecnologica sulla crescita economica analizzando l'effetto diretto sulla produttività totale dei fattori produttivi legato all'adozione di tecnologie di uso generale (elettricità, vie di trasporto, reti di comunicazione), l'investimento in beni capitali che incorporano nuove tecnologie (per esempio quelle dell'informazione e della comunicazione) e l'accumulazione di capitale umano in grado di affrontare con successo l'innovazione.

Dallo studio dell'OCSE è emerso un rallentamento del tasso di crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) pro capite nella media dei 24 paesi aderenti all'organizzazione: dal 2,6° degli anni settanta, al 2,1° degli anni ottanta, all'1,8° degli anni novanta. Durante quest'ultimo decennio si sono notevolmente ampliate le differenze nei risultati conseguiti dai diversi paesi, con un chiaro aumento dei tassi tendenziali di crescita in alcuni paesi (in primo luogo negli Stati Uniti, ma anche in Canada e in Australia ), e una diminuzione in altri, in particolare in Giappone e nei principali paesi europei. Si è quindi interrotta la convergenza dei redditi pro capite di questi ultimi verso il più alto livello medio prevalente negli Stati Uniti. L'ampliarsi della divergenza nei tassi di crescita degli anni novanta può almeno in parte essere spiegato con le differenze nei cambiamenti della produttività del lavoro da un lato e dell'impiego del lavoro dall'altro. Gli Stati Uniti, insieme a pochi altri paesi, hanno aumentato simultaneamente i livelli di produttività e l'impiego di lavoro, ossia più persone hanno lavorato in maniera più produttiva. Per converso, alcuni paesi europei hanno fatto registrare un consistente incremento della produttività, ma allo stesso tempo una scarsa crescita del tasso di occupazione; ciò in particolare nei primi anni novanta. Tale più elevata produttività è da ricondurre a un aumento dell'intensità di capitale (incorporante nuove tecnologie orientate alla razionalizzazione dei processi produttivi) o al licenziamento (o il non impiego) di lavoratori a bassa produttività, tipicamente con modesti livelli di qualifica professionale. L'espansione dello stock di capitale nelle tecnologie dell'informazione e della comunicazione ha contribuito notevolmente alla crescita del PIL complessivo. Negli ultimi due decenni del secolo la quota di tali investimenti effettuati dalle imprese sul totale è raddoppiata negli Stati Uniti (dal 15% all'inizio degli anni ottanta al 30° nel 2000) ed è fortemente cresciuta in paesi come il Canada, l'Australia e la Finlandia (dove nel 2000 superava il 20°). In Italia e negli altri principali paesi europei, come pure in Giappone, nonostante aumenti significativi, la quota nel 2000 era ancora del 15°.

Nel complesso, l'analisi mostra come i paesi che negli anni novanta hanno fatto registrare un incremento del PIL pro capite hanno in generale sperimentato un aumento dell'occupazione, un'ulteriore accumulazione di capitale (in particolare nelle tecnologie dell'informazione e della comunicazione) e un miglioramento della qualità della forza lavoro. Il dibattito teorico e in sede di politiche pubbliche si è sviluppato non soltanto sulla necessità di interventi pubblici tesi a sostenere e a promuovere l'innovazione tecnologica, ma anche a creare le condizioni di contesto economico più favorevoli alla diffusione delle nuove tecnologie. Alcuni studi hanno posto l'attenzione sul fatto che i diversi livelli di rigidità e di flessibilità dei mercati del lavoro dei vari paesi possono ostacolare o favorire l'introduzione dell'innovazione, con il modello americano da un lato, caratterizzato da elevata flessibilità e disponibilità al cambiamento, da minori garanzie per i lavoratori e da un maggiore potenziale di esclusione sociale per coloro che sono espulsi dal mondo del lavoro e, dall'altro, quello di grandi paesi europei e del Giappone che, in un contesto di Welfare State, conferisce maggiore stabilità d'impiego e protezione sociale ma ha maggiori caratteristiche di rigidità che possono non agevolare i mutamenti richiesti dal nuovo e più dinamico contesto economico-tecnologico. Altri autori ritengono tuttavia che sia riduttivo attribuire la scarsa crescita dei paesi europei e del Giappone, nell'ultimo decennio del XX secolo, alle rigidità del mercato del lavoro e ai suoi supposti effetti di freno allo sviluppo e all'adozione delle nuove tecnologie.

4. Struttura di mercato e innovazione

La relazione tra innovazione, struttura di mercato e dimensione d'impresa è stata esaminata nel corso degli ultimi decenni del XX secolo con vari obiettivi: valutare se le nuove tecnologie conducano a strutture di mercato concentrato dominate da imprese innovatrici monopolistiche od oligopolistiche o se, invece, il monopolio derivante dall'innovazione di nuovi prodotti e processi sia temporaneo e dia poi luogo a una struttura di mercato di tipo concorrenziale; verificare se una data struttura di mercato (monopolistica, oligopolistica, concorrenziale) favorisca o scoraggi lo sviluppo di nuove tecnologie; comprendere qual è il ruolo delle piccole e delle grandi imprese nello sviluppo dell'innovazione tecnologica. La letteratura ha posto in rilievo come l'innovazione tecnologica sia uno dei fattori più importanti delle strategie e delle prestazioni economiche delle imprese, in mercati che nell'ultimo scorcio del secolo XX si sono caratterizzati per una concorrenza sempre più accesa. Il dibattito si è sviluppato intorno a due contributi di Schumpeter (v., 1912 e 1942). Il primo, maturato in un contesto economico tipico del periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo, mette in risalto la capacità della piccola impresa di introdurre innovazioni e, grazie a esse, di conquistarsi spazi in mercati nascenti e in forte espansione. Nel secondo lavoro, che prendeva atto delle trasformazioni del mondo industriale verso la concentrazione produttiva e finanziaria, lo studioso riteneva che i progressi tecnologici più significativi avessero luogo nelle grandi imprese grazie alla capacità di pianificazione strategica, alla struttura organizzativa e ai mezzi finanziari disponibili. La superiorità della grande dimensione produttiva e delle strutture di mercato fortemente concentrate era vista soprattutto in relazione al processo di generazione e sfruttamento economico della scienza e della tecnologia.

I risultati della riflessione teorica ed empirica hanno indicato come non si possano trarre conclusioni di carattere generale in grado, per esempio, di dimostrare che è la tecnologia a determinare la forma di mercato o, viceversa, che una specifica forma di mercato può condizionare la nascita e lo sviluppo di nuove tecnologie; ugualmente, non vi sono evidenze che mostrino come le grandi imprese siano necessariamente più innovative delle piccole. Da tali studi emerge tuttavia che, ove l'analisi venga condotta in contesti specifici e a un adeguato livello di dettaglio, le relazioni tra le varie dimensioni appaiono più nitide ed è possibile trarre indicazioni per politiche pubbliche di sostegno all'innovazione tecnologica.

Nel caso italiano sono stati condotti studi che hanno impiegato non soltanto indicatori tradizionali quali la R&S o i brevetti, ma anche informazioni più generali sui comportamenti innovativi delle imprese e sull'impatto dell'innovazione sulle loro prestazioni economiche. I dati di un'indagine dell'ISTAT e del CNR (v. Sirilli ed Evangelista, 1998) mostrano come una quota piuttosto ridotta di piccole e medie imprese manifatturiere italiane avesse introdotto innovazioni tecnologiche nel periodo 1990-1992. Questo risultato si presta a diverse interpretazioni: da un lato potrebbe indicare che le piccole imprese, al contrario delle grandi, svolgono attività innovative in maniera occasionale; dall'altro, che l'innovazione tecnologica non riveste in realtà un ruolo centrale nelle strategie delle piccole imprese italiane e che dunque non è alla base della loro vitalità e delle buone prestazioni economiche registrate negli ultimi decenni del XX secolo. Da una lettura più approfondita dei dati emerge che le piccole imprese che innovano non mostrano prestazioni innovative e di mercato sostanzialmente inferiori a quelle di grandi dimensioni; non si riscontrano neanche differenze significative tra le due dimensioni riguardo alla tipologia delle innovazioni introdotte (prodotto e processo). Piccole e grandi imprese differiscono nettamente nella tipologia delle attività alla base dell'innovazione, indipendentemente dal settore merceologico: le piccole concentrano le proprie attività nell'acquisizione di tecnologie incorporate nei macchinari e negli impianti, mentre le grandi mostrano una più chiara vocazione per attività di generazione e sviluppo di conoscenze, quale la R&S. L'assenza di ricerca nelle piccole imprese è in alcuni casi, e solo parzialmente, compensata dalla presenza di attività come la progettazione e la messa a punto delle linee produttive dei nuovi prodotti e dei nuovi processi. Infine, le imprese manifatturiere italiane, e in particolare le piccole e medie, non sembrano operare all'interno di sistemi innovativi integrati, di tipo sia locale che nazionale. In particolare, assai ridotte sembrano le forme di cooperazione tra imprese, le interazioni tra queste e le istituzioni pubbliche di ricerca e universitarie, la disseminazione di nuove conoscenze e di trasferimento tecnologico . Nel complesso i dati mostrano che una parte considerevole del potenziale innovativo e tecnologico all'inizio degli anni novanta era ancora concentrata nelle grandi imprese. Queste, nell'ultimo scorcio del XX secolo e all'inizio del terzo millennio, hanno fatto registrare una progressiva contrazione, accompagnata da una riduzione delle capacità di ricerca e innovative, con rilevante pregiudizio per la tenuta del livello tecnologico nazionale in un contesto di globalizzazione in cui l'avanzamento delle conoscenze è sempre più nelle mani di équipes interdisciplinari di tecnici super-specializzati organizzati e inseriti in strutture altamente complesse.

5. L'investimento immateriale

L'avvento dell'economia basata sulla conoscenza è visibile in una serie di manifestazioni, come il rapido incremento dell'investimento in macchinari che incorporano nuove tecnologie, ma, soprattutto, nelle capacità professionali degli operatori a tutti i livelli. Non a caso le risorse umane sono diventate il fattore chiave delle organizzazioni sociali e produttive, e sempre più spesso il valore di un'azienda dipende prioritariamente non dalle sue immobilizzazioni tecniche, bensì dalle competenze del suo personale.

Al fine di valutare in quale modo i paesi investono in 'intelligenza' e quindi in capacità innovativa, è stato coniato il termine 'investimento immateriale', che include convenzionalmente la spesa per R&S, software ed educazione. Tale concetto ha il suo correlato nell'investimento fisico in impianti, macchinari e infrastrutture, definito dagli economisti come 'formazione di capitale fisso'. Nei paesi più sviluppati che fanno parte dell'OCSE l'investimento immateriale rappresentava nel 1995 tra il 6° e il 10° del PIL, con una media del 7,9°. Tra i paesi più avanzati l'Italia è quello con il più basso investimento immateriale, pari al 6,1°. La composizione di tale investimento mostra che, mentre la quota di PIL italiano destinata all'educazione (4,6°) è in linea con la media OCSE, la spesa in R&S e quella in software sono gravemente carenti. Anche in termini dinamici le prestazioni dell'Italia non appaiono particolarmente brillanti: il tasso di incremento medio annuo dell'investimento immateriale nel periodo 1985-1995 è stato del 2,8° per la media dei paesi OCSE, con i valori più alti nei paesi scandinavi e in Giappone, mentre quello del nostro paese si è attestato all'1,3°. Va da sé che un paese che effettua scarsi investimenti in conoscenze per un lungo periodo si trova ad arretrare progressivamente rispetto agli altri, e che l'inseguimento e il recupero nei confronti dei paesi leaders diventa poi sempre più difficile.

L'investimento immateriale rappresenta più di un terzo dell'investimento fisico - nel 1999 nell'area OCSE era pari al 22,4° del PIL - ed è dello stesso ordine di grandezza dell'investimento in impianti e macchinari (8,6°).

6. L'innovazione tecnologica nelle imprese

La misurazione statistica dell'innovazione tecnologica nell'industria è iniziata in via sperimentale negli anni ottanta, ma soltanto negli anni novanta ha permesso di raccogliere dati comparabili in un gruppo significativo di paesi.

Secondo i dati dell'indagine svolta in vari paesi europei e coordinata dall'Eurostat, più della metà delle aziende manifatturiere europee (il 51,4°) ha introdotto innovazioni tecnologiche nel periodo 1994-1996, mentre la percentuale nel settore dei servizi destinati alla vendita era del 39,9° (v. tab. II). La quota di imprese innovatrici varia considerevolmente da paese e paese; nel settore manifatturiero l' Irlanda , la Germania e la Danimarca fanno registrare percentuali vicine al 70°, mentre in Spagna, Portogallo e Belgio la quota di imprese innovatrici oscilla intorno a un terzo del totale. La percentuale italiana (48,3°) è in linea con la media europea. Nel caso dei servizi destinati alla vendita, le percentuali di imprese innovatrici oscillano ancora di più, dal minimo del Belgio (13,2°) al massimo dell'Irlanda (57,9°); l'Italia, con una percentuale del 31,0%, si colloca tra i paesi meno innovativi.

L'intensità innovativa varia notevolmente tra settori. La tab. III mostra che la quota di imprese innovatrici manifatturiere oscilla, in media, tra il 35° del settore tessile e del cuoio e il 70° del coke e dei prodotti chimici e farmaceutici. Nel caso del settore dei servizi si passa dal 24° nei trasporti al 68° nelle imprese di elaborazione dati e informatiche.

Un indicatore dell'impatto dell'innovazione elaborato sulla base dei dati dell'indagine Eurostat è costituito dal rapporto tra il fatturato connesso ai nuovi prodotti e quello totale. Tale indicatore cattura soltanto una parte del fenomeno, in quanto non dà conto delle innovazioni di processo, legate o meno ai prodotti nuovi o a quelli esistenti. Va altresì precisato che, nell'accezione dell'indagine, i prodotti erano nuovi per l'impresa, non necessariamente per il mercato in cui essa opera o, addirittura, per l'intero mercato mondiale.

Nel 1996 un terzo (32,4°) del fatturato delle imprese manifatturiere europee consisteva in prodotti nuovi o migliorati, che erano stati introdotti nel precedente triennio 1994-1996. Il principale risultato dell'indagine è dunque che, sebbene le nuove conoscenze svolgano un ruolo decisivo nell'economia europea, due terzi della produzione non ha subito cambiamenti nell'arco del triennio considerato.

Il processo innovativo prevede che l'azienda effettui varie attività che comportano l'acquisizione e la gestione sia dell'investimento immateriale (conoscenze tecnologiche, organizzazione produttiva, risorse umane, esplorazione e creazione di nuovi mercati, ecc.), sia di beni fisici che incorporano le nuove tecnologie, quali macchinari, impianti, apparecchiature, beni intermedi. Le imprese che hanno introdotto innovazioni nel periodo 1994-1996 hanno fornito informazioni circa le spese da loro sostenute nel 1996 relativamente alle seguenti voci: R&S, macchinari e apparecchiature, altre tecnologie acquisite dall'esterno, progettazione, formazione del personale, marketing per l'introduzione dei nuovi prodotti sul mercato. In media, per l'intera popolazione delle imprese manifatturiere innovatrici europee la spesa per innovazione è pari al 4,5° del fatturato, mentre quella relativa al settore dei servizi è del 3,9°.

I dati dell'indagine consentono di fare giustizia di un diffuso preconcetto secondo il quale l'innovazione si sostanzia con la ricerca e sviluppo: nella media dei paesi europei la spesa per R&S effettuata dalle imprese rappresenta il 53° del totale nel settore manifatturiero e il 46° nei servizi. Tali percentuali raggiungono il 62° e il 52°, rispettivamente, se si somma anche la R&S commissionata all'esterno ad altre organizzazioni, quali imprese, università, enti pubblici (v. tab. IV). Quasi la metà della spesa innovativa è dunque impiegata per acquisire conoscenze, formare il personale, svolgere attività di marketing e, soprattutto, per acquistare macchinari e apparecchiature che incorporano nuove tecnologie.

Il contributo della R&S alla spesa totale per innovazione delle imprese manifatturiere varia significativamente tra i paesi: esso rappresenta più del 60° in Francia e in Germania, circa il 50° in Svezia , Paesi Bassi e Austria ; percentuali significativamente più basse si riscontrano nel Regno Unito e in Norvegia (31°), in Italia (27°), in Portogallo (7°). La tecnologia incorporata nei macchinari assume un ruolo importante in Portogallo, Italia, Danimarca, Irlanda e Regno Unito.

I dati sulle imprese del settore dei servizi sono strutturalmente analoghi a quelli del settore manifatturiero. La differenza più significativa è rappresentata dalla minore importanza della R&S e dell'investimento in macchinari e apparecchiature, compensata da una più elevata quota della spesa destinata alle tecnologie acquisite dall'esterno per software, servizi tecnici e consulenze, e per altre tecnologie esterne (15°). I dati italiani mostrano una scarsa propensione alla ricerca e un elevato ricorso alle tecnologie incorporate nei macchinari, molto spesso costituiti da apparecchiature informatiche.

Nella media europea, il 69° delle imprese innovatrici manifatturiere e il 47° di quelle dei servizi hanno dichiarato di svolgere al proprio interno attività di R&S; in entrambi i settori la metà delle aziende la conduce in maniera sistematica e l'altra metà in modo occasionale.

7. La collaborazione nell'innovazione e i cicli tecnologici

L'aumentata competizione, insieme alla globalizzazione dei mercati e alle riforme istituzionali volte a incentivare la concorrenza e a ridurre le concentrazioni di mercato, hanno prodotto mutamenti rilevanti nella strategia innovativa delle imprese. Inoltre, la varietà di tecnologie necessarie per innovare si è ampliata per il continuo processo di avvicinamento dell'innovazione alla frontiera scientifica e per l'aumento della complessità delle nuove tecnologie. Le imprese non riescono più a coprire tutte le discipline, come avveniva negli anni settanta per aziende come l'IBM e l'ATT negli Stati Uniti.

La capacità di seguire lo sviluppo dei mercati e della concorrenza nello scenario internazionale è diventata pertanto una parte essenziale della strategia innovativa delle imprese. Queste, inoltre, sono di fatto obbligate a cooperare tra loro al fine di ripartire i costi dell'introduzione sul mercato di nuovi prodotti e servizi e di ridurre l'incertezza, e dunque il rischio, dell'innovazione. Le conseguenze di questa strategia si possono valutare analizzando il numero di brevetti depositati da una pluralità di inventori che risiedono in paesi diversi, numero che, nel periodo 1985-1995, è aumentato in maniera consistente. Poiché le grandi imprese non possono più realizzare tutte le innovazioni 'in casa' attraverso i propri laboratori di ricerca, si sono progressivamente concentrate sulle loro competenze specifiche, adottando una strategia di cooperazione con altre imprese e con organismi pubblici di ricerca per acquisire tecnologie e conoscenze complementari, o acquistandole direttamente sul mercato.

Le imprese possono accedere alle conoscenze di cui hanno bisogno per innovare in diversi modi. Gli accordi di collaborazione vengono stretti per vari motivi: per ridurre i costi dell'innovazione, per sviluppare standard tecnologici (per esempio lo sviluppo dello standard GSM - Global System for Mobile telecommunications - ha rappresentato un forte incentivo all'affermarsi della telefonia mobile in Europa e alla posizione di leadership della Nokia e della Ericsson), per mettere in comune le singole competenze dei partners, per razionalizzare l'impiego delle risorse evitando duplicazioni dei progetti di ricerca e utilizzando in maniera efficiente i pochi ricercatori di alto livello disponibili sul mercato del lavoro specializzato. Negli anni ottanta e novanta sono aumentate le alleanze strategiche tra imprese, molte delle quali riguardano la collaborazione nel campo della R&S e dell'innovazione. È aumentato inoltre il commercio estero, in particolare di prodotti ad alta tecnologia, e l'investimento diretto estero, in non pochi casi finalizzato ad accedere a nuove conoscenze. Nello stesso periodo i legami tra scienza e tecnologia sono diventati più stretti: i brevetti depositati dalle imprese fanno sempre più spesso riferimento alle pubblicazioni scientifiche realizzate nei laboratori di ricerca pubblici, le cui attività sono finanziate in misura crescente dalle imprese. I legami tra scienza e industria sono particolarmente importanti in aree quali la farmaceutica, la chimica organica e degli alimenti, le biotecnologie e i semiconduttori, mentre sono meno rilevanti in aree quali l'ingegneria civile, le macchine utensili, i trasporti. Soprattutto nelle tecnologie dell'informazione e della comunicazione e nelle biotecnologie la distinzione tra scienza e tecnologia sta diventando sempre più tenue, dato che le scoperte scientifiche possono condurre allo stesso tempo alla pubblicazione di articoli scientifici e all'avvio di imprese nate per la loro commercializzazione. Si sono progressivamente espansi i servizi ad alta intensità di conoscenze resi alle imprese, quali i servizi di elaborazione dati, di progettazione, di R&S, di formazione del personale, che sono tra quelli a più alta crescita e che svolgono un ruolo importante per la diffusione e l'adozione delle tecnologie nel sistema innovativo dei paesi. Infine, nell'ultimo ventennio del XX secolo è cresciuta la mobilità dei tecnici e dei ricercatori, in particolare quella tra paesi diversi.

L'aumento dell'importanza dell'innovazione tecnologica e delle pressioni competitive ha spinto le imprese a orientare la R&S verso risultati più vicini alle esigenze di mercato e a velocizzare lo sviluppo di nuovi prodotti. Indagini condotte negli Stati Uniti mostrano che la durata media di un progetto di ricerca nelle imprese è diminuita, tra il 1993 e il 1998, da 18 a 10 mesi. Studi del caso su singole imprese in settori come l'aeronautico, l'automobilistico, dei computer e dei macchinari indicano analoghe riduzioni nei tempi di sviluppo dei nuovi prodotti, con una tendenza a privilegiare la ricerca applicata e a ridurre i cicli di vita dei prodotti, Ciò è particolarmente evidente del settore delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, in cui i cicli di vita dei prodotti e dei servizi si sono ridotti più drasticamente.

Questi cambiamenti sono da ricondurre anche all'evoluzione della struttura economica dei paesi più avanzati, che ha comportato da un lato una contrazione delle industrie tradizionali (acciaio, chimica) caratterizzate da lunghi cicli del prodotto e dall'importanza dell'innovazione di processo e, dall'altro, un'espansione delle industrie più innovative (apparecchiature informatiche, servizi informatici e telematici) e più soggette a cambiamenti rapidi con cicli del prodotto brevi.

8. Il trasferimento delle tecnologie

La nozione di trasferimento tecnologico nasce da una visione del processo innovativo secondo cui, messa a punto una tecnologia, si passa alla fase di diffusione mediante una sostanziale replica in altri contesti. Nel secondo dopoguerra l'attenzione degli studiosi e degli operatori pubblici e privati si è incentrata sul trasferimento delle tecnologie dai paesi più sviluppati a quelli in via di sviluppo, mentre a partire dagli anni ottanta nei paesi più avanzati si è posto con forza il problema del trasferimento delle conoscenze dai laboratori di ricerca, sia pubblici che privati, alle imprese.

I canali del trasferimento tra paesi sono molteplici: il commercio di prodotti ad alta tecnologia, la vendita di macchinari, lo scambio di brevetti e know-how, gli accordi di cooperazione tecnico-scientifica, l'investimento diretto estero, il movimento di personale tecnico scientifico. La difficoltà del trasferimento sta principalmente nel fatto che le tecnologie sono di norma complesse e le conoscenze necessarie per produrre un nuovo prodotto o un nuovo servizio sono soltanto in parte codificate o incorporate nei macchinari, mentre un ruolo centrale è rivestito dalle conoscenze tacite, che risiedono nelle persone e nelle organizzazioni. In non pochi casi la convinzione che il macchinario, accompagnato dalle relative istruzioni, potesse permettere di acquisire una nuova tecnologia ha condotto a cocenti delusioni e a investimenti fallimentari. Un esempio è costituito dall'acquisto, negli anni ottanta, delle prime generazioni di PC da parte di organizzazioni che non avevano curato a sufficienza la formazione del personale e la riorganizzazione dei processi di elaborazione delle informazioni e di quelli produttivi, con conseguente scarso impatto dell'investimento sulla produttività.

Un indicatore del trasferimento tra paesi è costituito dalla bilancia tecnologica dei pagamenti, che misura i flussi finanziari relativi ai trasferimenti internazionali di tecnologia scorporata (cioè non incorporata nei macchinari): brevetti, know-how, disegni, marchi di fabbrica, invenzioni, assistenza tecnica, servizi di R&S e di ingegneria. Un deficit nella bilancia tecnologica non indica necessariamente un basso livello delle competenze scientifiche e tecnologiche di un paese: infatti, mentre gli introiti rappresentano una misura della competitività tecnologica di un paese, l'importazione di tecnologia scorporata, ove debitamente utilizzata ed 'endogenizzata' nel tessuto produttivo, può avere un effetto positivo innalzandone il livello tecnologico e la capacità innovativa. Gli Stati Uniti sono il maggior esportatore mondiale di tecnologia con un surplus nel 1999 di 23,2 miliardi di dollari, quasi cinque volte quello del 1985; il Giappone è passato da un deficit nel 1985 a un surplus di 4 miliardi nel 1999, mentre l'Unione Europea è un importatore netto. Va osservato peraltro che i trasferimenti di tecnologia scorporata sono aumentati significativamente tra la metà degli anni ottanta e la fine degli anni novanta, a conferma della crescente diffusione delle conoscenze tra paesi, in particolare quelli più sviluppati.

A livello europeo soltanto Belgio, Regno Unito, Svezia, Danimarca e Paesi Bassi hanno un saldo attivo, mentre il surplus della Svizzera, particolarmente elevato se rapportato al PIL, è collegato in larga misura alla presenza delle case madri di molte imprese multinazionali, le quali utilizzano il canale delle transazioni tecnologiche nel più ampio quadro di quelle finanziarie. Tra il 1985 e il 1998 l'Italia ha fatto registrare movimenti finanziari in entrata e in uscita della stessa dimensione di quelli francesi, inferiori a quelli olandesi, e dell'ordine di un decimo di quelli tedeschi, con un deficit di circa mezzo miliardo di dollari.

Nel corso degli ultimi due decenni del XX secolo hanno assunto importanza crescente le problematiche riguardanti l'interazione tra industria e settore scientifico pubblico (università ed enti pubblici). Quest'ultimo contribuisce infatti all'innovazione dell'industria mediante vari canali: la formazione di personale altamente qualificato, la divulgazione dei risultati della ricerca mediante pubblicazioni, conferenze, brevetti, la consulenza in progetti di innovazione, il trasferimento di nuove tecnologie mediante la creazione di nuove imprese, joint ventures e altri tipi di commercializzazione. L'importanza assunta da tale interazione è stata determinata sia dal ruolo crescente svolto dalla scienza nell'innovazione tecnologica, sia dalla diffusa convinzione che fosse necessario promuovere un'interazione più stretta al fine di ottenere maggiori ritorni dell'investimento nelle attività scientifiche pubbliche in termini di benessere economico e sociale.

Uno studio pubblicato nel 2001 (v. Polt e altri, 2001) ha analizzato i livelli di collaborazione e di trasferimento delle tecnologie di vari paesi in relazione al sistema di produzione delle conoscenze. Nel concludere che non vi è una modalità ideale di collaborazione e che questa dipende largamente dalle peculiarità del sistema nazionale di innovazione, lo studio ha identificato tre gruppi di paesi. Il primo, composto da Finlandia, Svezia e Stati Uniti, si caratterizza per un settore produttivo fortemente orientato alle industrie ad alta tecnologia, un settore della ricerca pubblica diversificato e di elevato livello, e per condizioni di mercato favorevoli all'innovazione nei settori ad alta tecnologia. In tali paesi la domanda qualificata dell'industria si associa a un sistema scientifico pubblico aperto al mondo produttivo, per cui le interazioni tra i due settori sono particolarmente intense. Il secondo gruppo, di cui fanno parte il Belgio, la Germania e il Regno Unito, è caratterizzato da un'industria meno orientata all'alta tecnologia e che tende a seguire traiettorie tecnologiche tradizionali, quali la meccanica, il macchinario, la chimica, i veicoli. In questi paesi la collaborazione tra settore pubblico e imprese riguarda prevalentemente progetti di ricerca di breve termine che mirano a risolvere specifici problemi nel quadro di tecnologie affermate. I paesi del terzo gruppo, Austria, Irlanda e Italia, hanno un sistema innovativo che punta prevalentemente su strategie di inseguimento nella diffusione di tecnologie nelle industrie tradizionali e di strategie di mercati di nicchia che richiedono una forte interazione con i clienti e i fornitori. Tali sistemi si concentrano tipicamente su innovazioni incrementali di prodotto e le fonti di innovazione provengono molto più dal mercato che dal mondo scientifico; di conseguenza, la domanda di interazione dell'industria con il settore scientifico pubblico è modesta.

9. Innovazione tecnologica e occupazione

L'emergere del paradigma tecnologico basato sulle tecnologie dell'informazione e della comunicazione ha avuto come conseguenza un profondo cambiamento nel mercato del lavoro, con la distruzione di posti di lavoro in attività diventate meno competitive o rilevanti e la creazione di occupazione in nuovi settori. Le analisi del fenomeno condotte negli anni novanta hanno cercato di individuare i nessi di causa ed effetto tra innovazione e occupazione, anche in vista di politiche pubbliche volte a ridurre gli effetti negativi del cambiamento e a favorire i processi di generazione di nuovi posti di lavoro. Sebbene le variabili in gioco siano molteplici e le evidenze empiriche non sempre del tutto soddisfacenti, i risultati delle ricerche hanno fornito alcune indicazioni circa l'impatto dell'innovazione sull'occupazione. Varie analisi mostrano che le innovazioni di processo produttivo, mirate alla razionalizzazione e alla riduzione dei costi, hanno complessivamente prodotto una diminuzione degli occupati, mentre nuovi posti di lavoro sono stati generati dalle innovazioni di prodotto, creatrici di nuovi mercati.

A partire dagli anni ottanta si è assistito a una polarizzazione del mercato del lavoro. Negli Stati Uniti i salari relativi dei lavoratori meno qualificati sono calati vistosamente; in Italia e in Germania, pur non essendosi verificata una polarizzazione in termini di salari, la situazione dell'occupazione è peggiorata drasticamente per i lavoratori non specializzati, mentre nel Regno Unito vi è stata una combinazione di questi due caratteri negativi.

Un altro aspetto dell'impatto del paradigma dell'informazione e della comunicazione è rappresentato da una profonda modificazione della natura stessa del lavoro e quindi del profilo del lavoratore: dalla stabilità e dalla prevedibilità tipici del modello di produzione di massa si è passati all'indipendenza, alla mobilità, alla temporaneità, all'apprendimento continuo, alla precarietà, con conseguenti mutamenti negli stili di vita.

10. La tutela della proprietà intellettuale

Nelle ultime due decadi del XX secolo si è assistito a profondi cambiamenti nel sistema dei diritti di proprietà intellettuale (DPI), nel senso di un loro rafforzamento sia mediante l'ampliamento delle tipologie di conoscenze tutelate, sia attraverso il riconoscimento ai titolari di una gamma di diritti più ampia che nel passato. In molti dei paesi più sviluppati l'insieme delle materie brevettabili è stato ampliato includendo il software e le basi dati (in particolare quelle relative alla genetica e alla geofisica); in alcuni paesi sono diventati materia di DPI la scienza di base (per esempio nei campi della matematica e della biologia) e i metodi di gestione delle organizzazioni. L'aumentata importanza annessa al valore economico delle tecnologie coperte dai brevetti ha condotto a un significativo incremento dell'attività di brevettazione nei paesi più avanzati: il numero di brevetti rilasciati dall'Ufficio dei brevetti e dei marchi degli Stati Uniti è aumentato dai 62.000 del 1980 ai 90.000 del 1990, ai 166.000 del 2001; le domande di brevetto depositate presso l'Ufficio europeo dei brevetti di Monaco di Baviera sono passate dalle 70.000 del 1990 alle 129.000 del 2000. Anche le controversie relative ai brevetti e ai diritti d'autore sono aumentate, almeno negli Stati Uniti. Le imprese hanno ricevuto crescenti introiti dalle licenze sui propri DPI.

Allo stesso tempo una serie di fattori, legati all'accresciuto investimento delle imprese in R&S, alle trasformazioni strutturali dei meccanismi di innovazione, ai processi di globalizzazione e di competizione tra imprese e tra paesi, alla diffusione delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, ha prodotto un continuo incremento delle transazioni nel mercato mondiale delle tecnologie sotto forma di cessione di brevetti, contratti di licenza, trasferimento di know-how. I mercati della tecnologia sono stati particolarmente attivi in aree quali la chimica, le biotecnologie, i semiconduttori.

In tale contesto vari governi hanno adottato misure per rafforzare i DPI, ma sulla natura degli interventi in questo senso esistono due posizioni divergenti. Da un lato si sostiene che è necessaria un'estensione dei DPI per garantire agli inventori i necessari incentivi: se le invenzioni non sono sufficientemente protette, possono essere imitate, riducendo o addirittura azzerando il ritorno economico per l'inventore e quindi determinando un rallentamento del progresso tecnico. Dall'altro lato si sottolinea il fatto che più ampi DPI possono creare ostacoli indesiderati alla diffusione del sapere, processo che rappresenta la base essenziale dell'innovazione in cui le nuove conoscenze alimentano la generazione di altre conoscenze. Da un punto di vista economico, un'eccessiva estensione dei brevetti, che per definizione riconoscono un monopolio, può far sì che il titolare riceva dalla società un ritorno economico eccessivo rispetto al costo sostenuto per la ricerca, generando una distorsione nell'allocazione delle risorse destinate all'innovazione che vengono convogliate verso aree con maggiori ritorni privati a scapito di quelle con maggior valore in termini di benessere sociale.

I governi di vari paesi dell'OCSE hanno inoltre spinto gli enti pubblici di ricerca e le università a brevettare le proprie invenzioni seguendo l'esempio degli Stati Uniti, dove nel 1980 è stata adottata la legge Bayh-Dole che consente agli esecutori della ricerca finanziata dal governo federale di brevettare i suoi risultati e di rilasciare licenze a terzi. L'obiettivo di tali politiche era quello di incentivare le organizzazioni pubbliche e i ricercatori a focalizzare la propria ricerca su obiettivi di interesse per l'industria e per la società in generale, incrementando allo stesso tempo le fonti di finanziamento dei laboratori pubblici. I paesi dell'OCSE differiscono tuttavia nelle modalità di allocazione dei DPI tra i vari attori (le istituzioni rispetto ai singoli ricercatori), nelle regole per l'attribuzione delle licenze, nell'allocazione delle royalties.

11. L'Europa e l'Italia verso il terzo millennio

Un'analisi comparata dei dati su R&S nelle tre grandi aree geografiche del mondo sviluppato, Stati Uniti, Giappone ed Europa, mostra come quest'ultima sia in ritardo rispetto alle altre due aree. Infatti nel 2000 i paesi europei spendevano per R&S 373 euro in media per abitante, rispetto agli 812 degli Stati Uniti e ai 660 del Giappone. All'interno dell'area europea si riscontra inoltre un'ampia variabilità tra paesi, con Svezia e Finlandia in testa e Portogallo e Grecia in coda. Se si analizzano i dati del periodo che va dall'inizio degli anni ottanta alla fine degli anni novanta, si osserva che il ritardo dell'investimento in R&S pro capite tra l'Europa da un lato e il Giappone e gli Stati Uniti dall'altro è aumentato. Se le spese per R&S vengono rapportate al PIL si evidenzia lo stesso ritardo: la percentuale era nel 2000 dell'1,9% per l'Europa, del 2,7° per gli Stati Uniti e del 3,0° per il Giappone.

Sotto il profilo delle risorse umane, i dati mostrano che alla fine degli anni novanta il numero di ricercatori per ogni 1.000 persone occupate era di 5,4 in Europa, 8,1 negli Stati Uniti e 9,3 in Giappone. Tale squilibrio è più marcato nel settore delle imprese che non in quello degli enti pubblici di ricerca e delle università. Infatti, a fronte dei 407.000 ricercatori impegnati nelle imprese europee, ve ne erano 919.000 negli Stati Uniti e 404.000 in Giappone. Per colmare il ritardo, date le condizioni strutturali degli apparati produttivi, l'industria europea dovrebbe creare dall'oggi al domani circa 600.000 posti di lavoro per ricercatori, una prospettiva che appare quanto mai irrealistica.

L'Europa si caratterizza anche per quello che è stato definito il 'paradosso europeo'. Esso è costituito dal fatto che i risultati degli investimenti nelle attività scientifiche sono di ottimo livello, spesso più elevato di quello che si riscontra negli Stati Uniti e in Giappone, e tuttavia le prestazioni commerciali delle imprese europee nei settori di punta, in relazione agli investimenti in ricerca industriale, risultano meno soddisfacenti e sono diminuite costantemente a partire dalla metà degli anni ottanta.

Di fronte a questo ritardo strutturale, i capi di Stato e di governo dei paesi comunitari hanno sottolineato l'importanza dell'innovazione come risposta dell'Europa alle sfide poste dalla globalizzazione e dalla società basata sulla conoscenza. Nella riunione del Consiglio europeo tenutasi a Lisbona nel marzo 2000 è stato quindi fissato per l'Unione il duplice obiettivo di rafforzare la coesione sociale nei paesi membri e di diventare nel successivo decennio l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo. Questo processo ha ricevuto un ulteriore impulso nel Consiglio europeo di Barcellona del marzo 2002, in cui è stato concordato che la spesa per R&S nell'Unione dovrà essere aumentata con l'obiettivo di raggiungere il 3° del PIL nel 2010, e che due terzi di questi nuovi investimenti dovranno provenire dal settore privato. Da un lato si riscontra dunque una forte volontà politica di investire in ricerca e innovazione, dall'altro lato, però, le dichiarazioni dei leaders politici sembrano buone intenzioni destinate a non trovare pratica attuazione, se si considera la situazione di partenza di molti paesi e il fatto che, a distanza di tre anni dalla dichiarazione di Lisbona, ancora non si scorgono segni di un'effettiva inversione di tendenza. Peraltro, mentre alcuni paesi europei hanno già raggiunto e superato il livello di investimenti in R&S indicati dal Consiglio europeo (Svezia 3,7°, Finlandia 3,3°), altri, tra i quali l'Italia (che si colloca all'1,0%), ben difficilmente potranno conseguire l'obiettivo prefissato; ciò a causa sia della ridotta dimensione del sistema scientifico pubblico, che dovrebbe avere un'espansione davvero considerevole in un tempo relativamente breve, sia della specializzazione del settore delle imprese in tecnologie tradizionali, che non richiedono elevati investimenti in R&S. Secondo uno studio di previsione, l'Italia potrebbe raggiungere nel 2010 un rapporto R&S/PIL dell'1,6%, ben al di sotto dell'obiettivo comunitario: ciò a causa non solo della ridotta disponibilità di risorse finanziarie, ma, soprattutto, dell'insufficente offerta di ricercatori. La situazione del paese ha conosciuto un ulteriore e preoccupante peggioramento all'inizio del terzo millennio: alla riduzione del finanziamento della ricerca e dell'università previsto nel bilancio dello Stato per il 2003 hanno fatto seguito eventi senza precedenti. Il presidente della Repubblica ha preso esplicita posizione per sollecitare un adeguato investimento nella ricerca, alcuni enti pubblici di ricerca hanno disdetto accordi di collaborazione scientifica internazionale, i rettori hanno rassegnato le dimissioni, poi revocate, per denunciare l'insufficienza dei finanziamenti pubblici alle università, il governo nazionale ha avanzato la proposta di escludere le spese di ricerca dai parametri di convergenza europei di Maastricht al fine di incentivare l'investimento.

Sempre per quanto riguarda l'Italia, il numero di imprese ad alta tecnologia è storicamente modesto, poco propenso a investimenti in ricerca di base e con pochi progetti innovativi sulla frontiera tecnologica. Il sistema innovativo delle imprese italiane ha conosciuto una stagione di rapido sviluppo tecnologico negli anni cinquanta e sessanta, da parte sia di imprese private che di imprese a partecipazione statale, spesso in collaborazione con il sistema di ricerca pubblico. In tale periodo si è assistito agli avanzamenti nell'elettronica promossi dalla Olivetti , nella farmaceutica dalla Lepetit, nell'energia nucleare dal Comitato Nazionale per l'Energia Nucleare ( CNEN ) e dall'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare ( INFN ), nei laser e nell'elettronica dal Centro Informazioni Studi ed Esperienze (CISE-ENEL) e dal Politecnico di Milano , nella chimica da parte del Gruppo Montedison , presso l'Istituto Donegani. Negli anni successivi questa attività non è stata svolta in modo continuativo e non ha ricevuto dalle imprese la priorità che meritava, anche perché in questo periodo le imprese italiane hanno puntato sulla minimizzazione dei costi e su innovazioni di processo, piuttosto che di prodotto. Il risveglio innovativo degli anni ottanta ha portato soltanto alla transitoria esperienza di Olivetti nel campo dei PC e all'affermarsi di ST Microelectronics come l'unica realtà di alta tecnologia tra le grandi imprese italiane. Nel corso degli anni novanta è proseguito il processo di disimpegno dell'industria italiana dai settori ad alta tecnologia, che - insieme alla crisi dei settori chimico, farmaceutico, aerospaziale e alla privatizzazione delle imprese appartenenti al sistema delle partecipazioni statali - ha coinciso con il passaggio del controllo di molte imprese italiane ad alta tecnologia a imprese straniere con un conseguente ridimensionamento delle strutture di ricerca e dunque dell'impegno di R&S nel paese.

Il governo ha operato riforme anche importanti per ammodernare le strutture di ricerca pubbliche conferendo loro maggiore autonomia, ma ha mantenuto gli investimenti a livelli del tutto insufficienti per un paese come l'Italia, sia per quanto riguarda la ricerca pubblica, sia per quanto riguarda il sostegno alla ricerca e all'innovazione delle imprese. Queste, allo stesso tempo, non hanno provveduto a incrementare i propri investimenti in R&S e innovazione, anche in ragione della loro specializzazione in prodotti a medio-basso contenuto tecnologico. Il paese si è presentato quindi alle soglie del terzo millennio in una posizione di grande debolezza circa la possibilità di svolgere un ruolo di protagonista nel processo di avanzamento delle conoscenze, basando di fatto il proprio livello di innovazione tecnologica e di competitività nei mercati internazionali sulle sue doti di flessibilità e di adattabilità piuttosto che sulla sua capacità di porsi alle frontiere della tecnologia. Tale strategia di inseguimento diventerà sempre più difficile da sostenere in un mondo in cui il legame tra generazione e applicazione delle conoscenze sta diventando sempre più stretto e in cui la competitività dei paesi sarà sempre più basata sull'innovazione tecnologica.

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